Capoluogo di Circondario e di mandamento e sede vescovile, distante da Benevento 36 chilometri. Vi si accede dalla stazione di Telese-Cerreto, sita al chilometro 65 della ferrovia Napoli-Foggia.
La presente Cerreto conta appena due centenari di esistenza, il secondo dei quali terminò nel 1888. Perciò ragion vuole che parlassimo della Cerreto anteriore, e quindi delle probabili origini della stessa.
L’antichità di fondazione e di origine produce negli abitanti di una qualsiasi località il sentimento più profondo dell’affezione al natio loco, donde poi la maggiore cura e lo interesse nel supporre o dimostrare la così detta civica atavità del comune. Tale è appunti il caso di Cerreto, al quale non vogliamo defraudare la possibilità di un legame storico che giunga a tempi lontani da noi, ai tempi delle guerre puniche.
Fa d’uopo giungere col pensiero al 540 di Roma, all’epoca della seconda titanica lotta fra Roma e Cartagine per l’imperio del mondo e la supremazia Quinta, e propriamente tener parola della seconda battaglia di Benevento, che in quel periodo venne combattuta. Eran consoli nel 540 Appio Claudio e Placco, i quali avevano i loro eserciti nel Sannio, mentre Annibale assediava Taranto. Queglino cercavano di stringere Capua, e aveano perfino impedito la coltura dei campi, donde le premurose richieste da parte dei capuani ad Annibale pel vettovagliamento della città. Questi comandò che Annone, generale dei Cartaginesi, fosse passato dai Bruzi nel Sannio, e avesse fatto di tutto per immettere in Capua quanto più frumento avesse potuto. Annone si mosse, evitò gli accampamenti nemici; e già prossimo a Benevento pose i suoi a tre mila passi dalla città, e ordinò a quei popoli che tutto il frumento fosse portato nel suo campo dando scorta pel trasporto a Capua, ove mandò frettoloso nunzio e richiesta di subitaneo invio di qualsiasi specie di veicolo o di bestia da soma requisita nei campi. Ma i Capuani poterono per allora spedire soltanto quattrocento veicoli e pochi animali da soma (Liv. Cap. X, libro XXV). Intanto i Beneventani, come seppero dell’approssimarsi dei Cartaginesi, immantinenti mandarono dieci legati ai consoli, i quali avevan stanza presso Boiano, e decisero spedire nella Campania l’esercito di Fulvio, cui quella provincia spettava; e- questi, .mossosi all’istante, giunse di notte a Benevento, e si stabilì entro il circuito delle mura. Fulvio da vicino conobbe che Annone era partito con alquanto esercito per seguire il trasporto del grano, ma che nel campo inimico eranvi due mila carriaggi, una turba inerme di villici; un tumulto immenso,e qualsiasi ordine militare inosservato, e diede quindi ordine alle milizie che le insegne e le armi avesser pronte nella prossima notte, in cui dovevansi espugnare gli accampamenti inimici. I Romani, partiti all’ora della quarta veglia, rimasti in Benevento tutti gl’impedimenti, poco avanti l’alba giunsero al campo inimico, e tanto timore causarono che di primo impeto l’avrebbero espugnato, se stato fosse nel piano; però l’altezza della località e le fortificazioni lo impedirono, potendovisi accedere unicamente da punto arduo e difficile ad ascendere. Appena giorno, un grande combattimento venne impegnato, e, non ostante le asprezze del luogo, il pertinace valore romano li fece arrivare al vallo e alle fossa, quantunque con molte ferite e danno dei soldati. In quel momento il console Fulvio, inteso il parere dei tribuni militari, disse che sarebbe stato meglio tornare in Benevento ad aspettare l’arrivo dell’altro esercito consolare; allora riuscir più facile l’impresa con due eserciti; doversi pel momento ognuno astenere dalla cominciata temeraria impresa, né esser possibile ai Campani di uscire dalla cinta castrense, né ad Annone il dare indietro. Quantunque già si fosse dato il segno della ritirata, pur tuttavia il clamore dei temerari soldati tutto covriva; e accadde in quel momento un fatto, che Napoleone riprodusse ad Arcole, nella memorabile campagna d’Italia del 1795-1796. Prossima alla porta del campo inimico era una coorte Peligna (Abruzzesi); il Prefetto Vibio, dato di piglio al vessillo, lo gittò fra i nemici, e, primo fra tutti, valicando il fosso e il vallo, e irrompendo nel campo, ingiunse seguirlo, per non far cadere l’insegna in potere dei nemici. Tutta la coorte seguillo, e si combatteva nel vallo. Allora Valerio Fiacco, tribuno militare della terza legione, tacciò di codardia i suoi romani, se non seguissero l’esempio degli alleati; e subito un Tito Pedanio, primo centurione, tolta al vessillifero l’insegna, gridò: vedrete questa insegna e me centurione nel vallo inimico, mi seguano tutti quelli che vogliono impedire all’inimico d’impadronirsene. Accesi da questo entusiasmo lo seguirono tutti i manipoli della prima centuria, e poscia l’intera legione. Il console, visto il successo, e, mutato consiglio, rivocò l’ordine di ritirata, incitando la rimanente parte dell’esercito a togliere di pericolo la valorosa - coorte alleata e la legione cittadina. Per tal modo tutti e per qualsiasi luogo fecero irruzione sull’inimico che li covriva di dardi; e né le molte ferite, né il sangue poterono arrestare quell’entusiasmo. In un attimo quindi i romani s’impadronirono del campo, come se nel piano e senza fortificazioni fosse stato; e lì fu strage, non più combattimento, imperciocchè al di là di seimila inimici furono uccisi, e più di 7 mila fatti prigioni con tutti gli approvigionatori Campani, i carriaggi e le bestie da soma e molta altra preda là raccolta, per averla Annone accumulata nelle devastazioni commesse a danno degli alleati di Roma. Smantellati gli accampamenti, fu fatto ritorno a Benevento, ove ambo i consoli, essendo sopravvenuto dopo pochi dì Appio Claudio, venderono e divisero l’immensa preda, e fecero speciali donativi ai valorosi Vibio Peligno e Tito Pediano, primo centurione della terza legione, per virtù dei quali il campo era stato espugnato.
Annone seppe della strage dei suoi e degli espugnati accampamenti in Cominio Cento, e ritornò precipitosamente nei Bruzi (Calabria), più a modo di fuga che di tappa, con pochi approviggionatori che seco aveva per caso. I Campani, udita la strage dei propri e degli alleati, mandarono avvisi ad Annibale sulla presenza dei due consoli a Benevento, pronti a recarsi a Capua; la quale, non soccorsa a tempo, più presto di Arpi sarebbe caduta in potere dei nemici; e che Capua, solita ad essere paragonata a Cartagine, valeva ben molto più di Taranto con tutta la sua cittadella. Annibale spedì all’istante duemila cavalieri coi legati, acciò con questo presidio fossersi impedite le mimiche devastazioni. I consoli da Benevento condussero le legioni nelle Campania (Liv. cap. XII) per espugnare Capua, e punirla della defezione al partito romano, già da tre anni consumata; e, affinchè Benevento non fosse rimasta senza guarnigione, ordinarono a Tito Gracco che con la cavalleria e l’infanteria leggiera si fosse recato dalla Lucania in Benevento.
Il Cominio Cento era a Cerreto o no? L’affermativa è una ipotesi fondata sulla parziale simiglianza del nome, ché anche in bocca alla plebe vien detto presentemente Gemito; e quella ipotesi trova una tal quale legittimità di sostrato storico nel fatto che Annone si partì di Benevento per assicurare la via ai carriaggi che dovevan prendere la volta di Capua; nè è improbabile che false informazioni gli abbian fatto credere l’inimico alle montagne del Matese, tanto più per quanto i Romani precedentemente accampavano a Boiano. Facilmente, adunque, egli mosse in persona da Benevento verso Capua per la valle del Calore, e risalì verso il Volturno, credendo così ad un tempo di proteggere le vettovaglie destinate a Capua, e sbarrare i passi dell’inimico verso la sbocco del Volturno, dall’agro Allifano nella campagna di Telese.
I Romani intanto venner giù da Boiano per la valle del Tammaro, e poterono far qualche dimostrazione sul Matese, per tenere a bada il nemico da quel lato, e mascherare l’obbiettivo vero su Benevento, con un falso verso Capua. Questa poté esser la cagione del trovarsi Annone a Cominio Gemito.
Né il Cominio Cento poteva stare presso Fondi, in quella località che più tardi fu detta valle Comana, imperciocchè Annone non ebbe oltrepassata Capua, né presa la via di Roma in quella congiuntura del tutto contraria a simigliante possibilità di divisa-mento. D’altronde è chiaro che Annone avverti i Campani d’aver messi presidi a tutela dei foraggiatori, e che il console Quinto Fulvio si accorse che Annone erasene partito con buona squadra dell’esercito, e ito altrove a proteggere il vettovagliamento, unica finalità degli ordini di Annibale, delle richieste dei Capuani, dell’applicazione tattica di Annone.
Di guisa che non monumento, né epigrafe rinvenuta, ma il nome, la località e l’obbiettiva del luogo, sono le ipotesi che riannodano il Cerreto anteriore al 1688 al Cerito Sannita del 540 di Roma.
Che ne sia avvenuto di questo paese nei tempi successivi non è dato conoscere, se non per via d’induzione; è da argomentare che sia stato compreso nella colonia Telesina, e forse addivenuto più popolato allorquando la città fu distrutta e deserta.
La iscrizione a Pubblio Satrio, riportata dal Mommsen al N. 4876, fu rinvenuta nell’agro di Cerreto; ed ivi parimenti l’altra sepolcrale segnata al N. 4901 ed alla col. 34 nel museo di Napoli:

L. LUSCIO. MA

RIO. THEOPOM

TO SUI VIXIT. AN

NIS. XVIII. MENS

XI. LUSCIA. PRIMA

MATER.

Né son le sole. Laonde esattamente argomenta il Mommsen, collocandole fra quelle della colonia Telesina.
Ai tempi Longobardi Cerreto fu dipendenza del Gastaldato di Telese; ed esisteva nel decimo secolo, trovandosi menzionato in un diploma di conferma di concessione da parte dell’imperatore Ottone alla Badia Sofiana, con le parole: “In Cerreto capellam in honore Sancti Marciani cum pertinentis suis “.
Ai tempi dei re normanni fu suffeudo dei Sanframondo nella contea di Caserta. Vuole il de Lellis (famiglie nobili di Napoli, parte I pag. 350) che il primo di quella casa ad averne l’infeudazione nel 1151 sia stato un Guglielmo I di Sanframondo. Questi è nominato nel catalogo dei baroni N. 978: “Guillelmus de Sancto Fraymundo, sicut dixit, tenet in demanio Limatam, quae est feudum duorum militum, et de Guardia feudum unius militis et de Cerreto feudum trium, militum, et de Favicella feudum duorum militum. Una sunt de propriis feudis demani sui feuda militum X et augmentum demani sui obtulit milites XVIII. Una inter feudum et augmentum demani sui obtulit milites XXVIII et servientes L“
Il Capecelatro (origine delle famiglie nobili vol. Il pag. 49) afferma che un Raone Sanframondo sia stato primo signore della Guardia. Dalle pergamene di S. Maria delle Grotte di Vitulano, possedute dalla società di storia patria di Napoli, sappiamo con certezza, stabilita da documenti del tempo, che nel 1160 viveva Guglielmo Sanframondo figlio di Guglielmo, e così ancora nel 1173. E a ribadire tale verità coincide il N. 883 del catalogo dei baroni normanni, il quale fa motto di un feudo di tre militi che possedeva in Aversa Guilleimus de S. Fraymundo iuvenis. Le personali ricerche che abbiamo fatte ci han condotto a stabilire che quel feudo esser dovea Casignano, e che il Guglielmo aveva i seguenti suffeudatari:

884. Valentino feudo 1 milite.
885. Roberto d’Avenabulo, feudo 1 milite.
886. Umfredo di Ribursa feudo 1 milite.
887. Roberto di Lacerna pauper feudum serviet ipse.
888. Giozzolino della Rocca feudo 3 militi.
889. Riccardo della Rocca, Campiglione feudo 1 milite.
890. Guglielmo Lombardo, feudo 1 milite.
891. Niel pauper feudum 1 milite

E, come se ciò non bastasse, al N. 478 è segnata “Filia Roberti Sanframundi tenet ab eo (Guaimario de Rotundella) Romagnianum feud. 1 mil.”. Le pergamene del 1195 parlano dappoi di un Giovanni di Sanframondo.
Nel necrologio di S. S. Spiritò di Benevento e nominato un Ioseph de Nicolao de Cento, morto verso il principio del secolo XIII.
Nell’elenco dei prigionieri guelfi di Lombardia, dati in custodia ai baroni del regno a 25 dicembre 1239 da Federico II, trovasi che un Iacobus de Cerrito ebbe il nobile Obertunz Corvallum piacentino, e Iohannes de Sanctofraymundo un Ruffinurn Brugnonomen di Padova; ma probabilmente il Iacobus de Gemito o era un castellano o qualche altro della casa medesima dei Sanframondo, solito a dimorare in altro possedimento. Pare che verso la fine del XII o la metà del XIII secolo il possedimento prediletto per dimora sia stato Limata, distrutto totalmente dal tremuoto del 1456. La importanza di Cerreto era cresciuta ai tempi Angioini. Il cedolario del 1320 lo pone nel giustizierato di Terra di Lavoro con la tassa di once 24 in questa guisa: “Cerretum unc. 24, tarì 14 et pro alleviatione Castri Albiniani tarì 12 gr. 8 “. In una statistica del 1444 è fra le terre principali del Reame, ed il suo Conte fra i principali baroni. Un Giovanni IV di Sanframondo fu il primo il quale, regnando gli Angioini, ebbe a ricevere il titolo di Conte di Cerreto, dopo più di 200 anni che la famiglia l’aveva in feudo. Poscia vi tennero signoria Leonardo di Sanframondo (1319), Gionata suo figlio nel 1321, Tommaso nel 1343 e successivamente Pietro, coi figli Nicola ed Antonio. Nelle dissensioni tra Angioini e Durazzeschi, e in seguito tra Angioini ed Aragonesi, la famiglia dei Sanframondo si trovò ad avervi parte attiva e non ultima, finchè del tutto non venne spenta.
Vinta Giovanna I da Carlo di Durazzo, e venuto Luigi I d’Angiò a tentar fortuna nel Regno, coronato che fu da Papa
Clemente, entrò per la via d’Abbruzzo, e, tra francesi, nobili regnicoli e altri, ebbe un esercito di 75 mila cavalli. Tra quelli i quali, lasciato il giuramento di Carlo, si diedero all’Angioino e accorsero a riceverlo, fuvvi il Conte di Cerreto. Presso detta città dimorò per alcun tempo il numeroso esercito, dopo che - ebbe consumati i foraggi tutti e le vettovaglie della valle Caudina (Costanzo, lib. 8). Morto Luigi nel 1383, proclamato suo figlio Luigi II dai partigiani, capitanati da Tommaso Sanseverino, furon creati gli Otto deputati del Regno, e fra essi Giovanni Sanframondo Conte di Cerreto.
Venuto Luigi II in Napoli, tra i primi a fargli omaggio fuvvi Pierro Sanframondo Conte di Cerreto. E così la fortuna della casa venne totalmente aggiogata alla sorte degli Angioini, la quale non fu ad essi favorevole, e infiniti guai addusse alle castella di questi luoghi, che furon teatro di combattimento e di espugnazioni. Il Sanframondo permise che tutti i Guasconi, e non eran pochi, al servizio di Luigi avesser dimora nel contado di Cerreto (ib. lib. X); e cominciò allora quella intolleranza dei sudditi che militando pel barone non avean sicure le case e l’onore familiare, quantunque negli anni che corsero alla fine del secolo XIV si fosse in generale mantenuta la signoria Angioina contro Ladislao nella valle Beneventana, Caudina e Telesina. Senonchè, venuto il 1398, e volendosi da Re Ladislao far qualche cosa di più serio contro l’Angioino Luigi e i di lui partigiani “cavalcò per la via d’Isernia contro it Conte di Cerreto e lo cacciò di stato” (ib. lib. XI). Si sa che indi a poco Napoli si rese a Ladislao; e Luigi, che stava a Taranto, sen partì pei suoi stati di Provenza e di Angiò con molti nobili suoi seguaci. Rimasto unico Re Ladislao, e tratta vendetta di quei di casa Marzano e dei Sanseverineschi, diede Cerreto ai della Marra. Ma per la mutabil fortuna delle cose, con tutto che fosse tornato in Regno Luigi Il d’Angiò, e trovatavi morte naturale, tornò nuovamente in signoria un Giovanni di Sanframondo, e fu capitano d’armi nell’esercito di Ladislao nel 1412.
Morto Ladislao, succedette nel Regno Giovanna Il, di lui sorella, vedova del duca d’Austria; e i travagli non ebber tregua, aumentati dal disordine dei favoriti, dalla mancanza di prole, dalla doppia adozione, di Alfonso d’Aragona e di Luigi III d’Angiò, dal testamento del 1385 in favore di Renato d’Angiò, fratello dell’ultimo Luigi. Il principe di Taranto, militando per Alfonso d’Aragona, ebbe a raccogliere presso Cerreto il proprio esercito di duemila fanti ed altrettanti cavalli. Rimasto il Regno ad Alfonso d’Aragona, nel primo generai parlamento che costui convocò in Napoli v’intervennero un Guglielmo Sanframondo Conte di Cerreto e un Cola Sanframondo. Morto Alfonso nel 1458, e succedutogli il figliuolo naturale Ferrante I d’Aragona, vennero fuori le pretensioni di Giovanni d’Angiò, che fu figlio di Renato, e la calata di lui nel Regno. Tra i primi che dalla parte sua si schierarono fuvvi Giovanni di Sanframondo Conte di Cerreto, e in generale quelli della famiglia.
Disfatto Nicolò di Sanframondo a Pontelandolfo dal Re Ferdinando, il Re riebbe anco Cerreto e Telese, che avevano alzate le insegne Angioine per volere dei loro signori; e il Sanframondo seguì in Francia il duca Giovanni d’Angiò. Si chiuse completamente in tal modo il ciclo del dominio dei Sanframondo su Cerreto; e indarno un Carlo di Sanframondo, sceso con Carlo VIII trentatre anni più tardi, cercò ravvivare la fortuna della casa, e venne ucciso in battaglia. Il secolo XV segnò per essi l’apogeo del potere e la caduta, l’apogeo del potere, imperciocchè contemporaneamente un Pietro di Sanframondo fu Barone di Pietraroia, Filippo Barone di Cusano e Civitelia, Urbano e Giovanni baroni di Ponte, Nicolò e Antonio Conti di Cerreto, col possesso dei casali di Cusano, di Faicchio, di Limata, di S. Lorenzo.
Siccome la famiglia Carafa fu cagione precipua della sovranità Aragonese in Napoli, gli Aragonesi elevarono ai maggiori poteri ed onori i Carafa, e specialmente quelli della linea di Malizia Carafa e di Diomede. Devoluta la Contea di Cerreto alla Regia Corte, Ferdinando I a 9 gennaio 1483 ne investì Diomede Carafa cum onore cornitatus. Il diploma, firmato da Ferdinando I e da Onorato Gaetani d’Aquino conte di Fondi, protonotario del Regno, chiama il paese: “castrum Cerreti cum casalibus videlicet S. Laurenzelli et Civitellae.
I nuovi signori 13 anni più tardi furon per poco tempo cacciati di possesso. Quel Carlo di Sanframondo generale della cavalleria francese occupò Cerreto, ma poscta alle porte di Sulmona venne disfatto e morto con cento dei suoi, per opera del Cantelmo e di Carlo d’Aragona.
Rimessa casa Carafa in signoria, n’ebbe conferma a 19 dicembre 1496 da Federico III con privilegio ‘sub data in terra Frassarum.
Ebbe il paese il titolo di oppido insigne, e fu governato coi propri statuti, chiamati Capitula, e distinti nei seguenti e in altri titoli:
Concordia litis; De portatione armorum prohibitorum et percussione cum illis; De injuriis; De darnnis datis in comnu; De damnis datis per homines, De dan’i~nis datis in hortu; De ludo azardi; De carcere et capt,ira, De portatione pallii baldacchini, ecc.
Questi capitoli segnano la data del 27 maggio 1571, proprio di quell’anno in cui Cerreto divenne stabile dimora dei vescovi Telesini, a tempo del vescovo Mons. Cherubino Lavosio, e quando già la popolazione dalle 272 famiglie del 1545 e dalle 320 del 1595 trovavasi aumentata a 461. Però è a riflettere che già possedeva altri antichi statuti. L’Alianelli nelle Consuetudini, pag. 132, riferisce i Capitula transactionis del 1541 tra l’Università di Cerreto e il feudatario del tempo, e al N. 7 sta detto: “Li capitoli antichi di detta terra con quelli che si faranno di nuovo si abbiano da accomodare per il magnifico Giov. Angelo Pisanello e magnifico Francesco Antonio Villano, secondo l’antico solito di detta terra e secondo che parerà alli predetti giusto ed onesto”
Divenuta Cerreto sede dei vescovi Telesini, un Monsignor Bellocchi, creato vescovo nel 1587, fu quegli che a 3 luglio 1593 primo eresse e fondò in questa residenza il seminario diocesano Telesino. La popolazione rapidamente crebbe a 591 famiglie.
Il vescovo Eugenio Savino a 2 novembre 1600 accettò la donazione di un palazzo per episcopio, fattagli da Paolo e Sisto Mazzacane.
Così, e per opera dei feudatari, che vi crearono industrie, e per cagione della residenza vescovile, Cerreto divenne sempre più grande e fiorente; e racchiudeva almeno un otto mila abitanti, undici cittadini possessori di feudi, e telai di panni, quando venne totalmente distrutta dal tremuoto del 1688, quello stesso che infiniti guai addusse a Benevento. L’arcidiacono Magnati di quella diocesi ne stampò nell’anno medesimo una relazione, dalla quale (pag. 315 e seg.) togliamo quanto segue:
Cerreto, capo della Contea, nella quale si numeravano poco men che 8 mila abitanti, la metà di essi restò sepolta in quell’eccidio. In quel medesimo giorno appunto dei 5 giugno e nel sentire ed avvertirsi nella prima scossa della terra la presero quasi per burla e per scherzo, nella seconda pensavano che dovesse incontanente cessare, e nella terza gridavano: non è già burla, e nel fuggire furono oppressi dalle pietre e sepolti dalle medesime, e ritrovarono dove meno seI credevano nel medesimo istante e la morte e la sepoltura, essendo caduta tutta senza potervisi scorgere un vestigio di essa, osservandosi solamente un gran mucchio mal composto di sassi, pietre, calcina, travi ed altri materiali, dimostranti di esservi stati in essa edifici e fabbriche, e tra questi eccidi ed infortuni vi succederono alcuni accidenti alquanto notabili
In seguito narra che di 80 monache (pag. 316) dell’ordine francescano ve ne perirono 59, il resto di esse tutte. sepolte nelle pietre son rimaste storpie;
Dei padri conventuali di S. Francesco (319) dei 12 che colà si ritrovavano in quel convento soli due si salvarono anche scavati tra quei edifici“ Era vescovo. Telesino Mons. Giov. Battista de Bellis, il quale trovavasi in Faicchio in quel di 5 giugno 1688. Nella relazione fatta da lui a Papa Innocenzo XII addì 11 del mese accennò la distruzione dell’episcopio e della chiesa cattedrale, esser morti 8 tra canonici e dignità, perita la maggior parte dei preti, frati e monache, essersi salvati i cappuccini, i seminaristi e la gente che rattrovasi pei lavori agricoli in campagna.
Devesi al vescovo de Bellis, non che al feudatario del tempo, Marzio III Carafa, l’idea, subito attuata, della riedificazione di Cerreto in un punto molto più basso dell’abitato, ma anche di aere sano. Con indicibile sollecitudine fu dato mano ai lavori, che diedero vita alla nuova città, fabbricata con alquanta regolarità di costruzione, con vie diritte e parallele. Di guisa che, sotto tale rapporto, la presente Cerreto è il paese più moderno che esiste in tutta la provincia di Benevento, come quello che data la propria fondazione dal 1689, e conta appena due centenari di vita. Prima cominciossi la costruzione della Cattedrale con l’annesso episcopio, sebbene terminati molti e molti anni più tardi. Il seminario poi -fu cominciato da Mons. Antonio Falangola, dopo il 1740, nell’anno in cui, a 28 settembre, fu solennemente dedicata e consacrata la Chiesa Cattedrale.
Fino a monsignor Lupoli, morto a dì 8 gennaio 1800, i vescovi assunsero soltanto il titolo di Episcopus Te/esinus; dal 7 settembre del 1818 in poi il titolo fu quello di Episcopus Te/esinensis etiam Cerretanensis.
La diocesi è alquanto vasta, e contiene comuni appartenenti tutti alla odierna provincia di Benevento, eccettuatone Gioia Sannitica coi casali di Auduni, Caselle, Curti e Criscia, che seguitano ad appartenere alla provincia di Caserta, donde Cerreto fu distaccata quando nel 1861 entrò a comporre la provincia di Benevento, e fu eretta in capoluogo di circondano con sede di sottoprefettura.
Le altre località della diocesi sonQ: Telese, Guardia Sanframondi, S. Lorenzo Maggiore, Faicchio, Cusano Mutri, S. Lorenzello, Casalduni, Solopaca, S. Salvatore Telesino, Amorosi con Puglianello, Melizzano, Pietraroia, Castelvenere, Civitella, che è frazione di Cusano Mutri, Massa inferiore, che l’è di Faicchio, e Ponte, frazione di Casalduni.
Il mandamento di Cerreto Sannita comprende Faicchio, con i casali, e S. Lorenzello. Era più vasto, e di molto, nella circoscrizione del 1811 e nell’altra del 1816. Nella prima conteneva: Massa inferiore, Guardia Sanframondi, S. Lorenzo Maggiore, S. Lorenzello. Civitella, Amorosi; nella seconda: Amorosi, S. Lorenzello, Massa e Faicchio.
Presentemente il Comune novera 5513 abitanti. Ha una estensione territoriale di circa diecimila moggi. Sonovi principali proprietari i signori Carizzi, Magnati, Ungaro, d’Andrea, Mazzacane, Falanga, Mastrobuono, Carpinelli, Mastracchio, Ciaburri, Biondi e altri; né vi mancano forestieri che vi possedano. Principali prodotti sono il vino e l’olio, dei quali si fa abbondante esportazione. Alle principali famiglie appartengono i migliori edifici.
Patria di feraci ingegni, ha sempre avuto uomini distinti in svariate discipline; e, senza detrarre ai viventi che l’onorano, farem motto dei principali che ivi trassero i loro natali. E prima diremo di quei di Cerreto che furon vescovi Telesini.
Giacomo da Cerreto, vescovo Telesino, fu vescovo di Volturara ai 13 gennaio 1349; e ai 30 ottobre 1353 fu traslato alla sede di Telese. Biagio Caropipe di Cerreto, dopo aver sostenuto insigni uffici ecclesiastici ed essere stato canonico del capitolo di Napoli e di quello di S. Maria Maggiore in Roma, fu nominato alla cattedra Telesina con bolla dell’ 1 giugno 1515; e morì in patria a 10 luglio 1524.
Un Antonello da Cerreto, giureconsulto, vissuto tra il secolo XIV e i principii del XV, trovasi nominato più volte in documenti nel grande Archivio di Napoli.
Giovan Francesco Gennarelli, legista del secolo XVI, scrisse un’opera giuridica intitolata Singularia; e morì nel 1555.
Giovanni Alfonso Gennarelli iuniore- Viveva tuttavia nel 1597, e fu dotto giurista. Scrisse: Comentarium in pragmaticam octavam, de falsis, punientem eos qui petunt debitum alias sadisfactum, Venezia 1600.
Pietro Iuliani nacque in Cerreto nel 1727. Versato in filosofia e in letteratura latina, tenne letteraria corrispondenza coi dotti del tempo, e scrisse molte orazioni latine. Morì nel 1810.
Ferdinando di Crosta, nato ivi il 16 giugno 1734, morto a 26 agosto 1814, insegnò diritto canonico e civile nel seminario; e scrisse un trattato di diritto canonico.
Andrea Mazzarella, nato- a 21 dicembre 1764, passò i suoi anni giovanili in Napoli; e, per darsi alle lettere, abbandonò il foro. Nel 1799 andò esule a Firenze; ed ivi collaborò in lavori letterari e giornalistici con Vincenzo Coco, Vincenzo Monti e Giulio Perticari, coi quali visse in benevola intima familiarità. Tornato in Napoli nel 1804, il governo di Gioacchino Murat lo nominò giudice di pace nella patria. Indi lasciò la carica, fece nuovo ritorno in Napoli, e, per infermità, ritirossi a Cerreto, ove morì nel 1823. Si hanno di lui molti elogi, canzoni, un poemetto genetliaco e un prospetto ragionato sulle bellezze della storia universale. Le sue migliori poesie furon raccolte da un suo concittadino, l’egregio Avv. Nicola Ungaro del foro di Napoli, e pubblicate in volumetto, edito del Fibreno nel 1833, con dedica a Basilio Puoti, premessavi una vita elegantemente scritta dal predetto avvocato Ungaro, discepolo del Puoti.