Questo ponte sul Titerno, intitolato al condottiero romano Quinto Fabio Massimo, noto come il Temporeggiatore, per le sua tattica militare preferita, è il frutto di una serie molteplice di interventi edificatori e di adattamento operati dai Romani su una preesistente struttura, forse sannita. Il ponte dei Sanniti doveva essere originariamente costituito da due travi portanti rivestite di tavole di legno e consentiva il collegamento della fortezza del monte Acero con la corrispondente fortificazione del monte Erbano, facilitando le comunicazioni tra gli abitanti della valle Telesina e quelli del Matese. Il ponte è noto anche come Ponte dell’Occhio, denominazione che, come suggerisce lo storico Caiazza ne “Il territorio alifano”, discende dal termine dialettale locale “nocchio”, che deriva a sua volta dal latino “opulum” che significa “acero campestre“. Costruita più di 2000 anni fa, al termine del lungo conflitto che oppose i Sanniti ai Romani, la struttura di questo arco, molto sottile e fragile all’apparenza, è in realtà molto robusta grazie alla solidità delle sue basi. La fattura accurata delle sue spalle ha permesso al ponte di resistere indenne nel corso dei secoli alle offese arrecate dal tempo, dalla natura e dagli uomini. Ad esempio, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, nell’ottobre del 1943, la zona dei due suddetti monti collegata dal ponte fu teatro di un episodio di guerra, tra un contingente tedesco e una divisione della V armata statunitense, che ricalcava in parte, pur nella diversa efficacia dei mezzi e delle armi impiegate, la tattica degli scontri avvenuti in epoca remota tra i Romani ed i Sanniti. Nell’occasione, il ponte di Fabio Massimo fu miracolosamente risparmiato sia dai Tedeschi che dagli Americani ed uguale sorte toccò fortunatamente ai civili, rifugiati nel convento di San Pasquale e stretti nella morsa dei Tedeschi, che impedivano loro la fuga, e degli Americani che sottoposero la zona a un bombardamento incessante per una intera giornata facendo fortemente temere anche la distruzione completa dell’edificio religioso. Dal punto di vista architettonico il ponte si presenta costituito da tre arcate asimmetriche che differiscono sia per altezza che per piano di imposta, essendo state edificate in fasi successive in un’opera adattata nel corso del tempo a differenti esigenze civili, economiche e ambientali. Tali interventi, perfettamente visibili, testimoniano anche della evoluzione costante delle tecniche di costruzione e dell’impiego di nuovi materiali da parte dei Romani, consentendo in tal modo anche una precisa indicazione del periodo in cui queste modifiche vennero attuate. Il primo intervento romano sul ponte, avvenuto sicuramente in età repubblicana, è evidente nella costruzione dei basamenti secondo la tecnica poligonale, utilizzata prima della scoperta del calcestruzzo da parte dei Romani, materiale arrivato a Roma probabilmente dalla Magna Grecia. I Romani intervennero sia sulla larghezza dell’alveo, arretrando le spalle del ponte, che sulla configurazione del piedritto di destra, allo scopo di agevolare il deflusso dell’acqua, limitando in tal modo i danni provocati dalla forza delle acque e dai tronchi trasportati dal corso del torrente. I basamenti poligonali del ponte furono realizzati con blocchi calcarei di oltre un metro per due. La perfezione della tecnica costruttiva ha permesso loro di resistere indenni ai numerosi eventi sismici che hanno spesso interessato la zona. In origine, sui basamenti alti 3 m. ed elevati sul banco di rocce delle sponde del fiume, alto quattro metri sul livello dell’acqua, era posta una passerella di legno per l’attraversamento, che non offriva una adeguata resistenza alle piene del fiume, oltre ad essere costituita da materiale facilmente deperibile. La passerella fu quindi sostituita da una volta a tutto sesto in laterizi. Il ponte utilizzato nel corso dei secoli, è stato poi riadattato e livellato per facilitare i percorsi periodici e frequenti delle greggi.